Figlio di gente che ha lottato
Sospeso tra un Settentrione di adozione e un Meridione d'animo, Vincenzo Reale, autore de "La fortuna del greco" e ospite il prossimo sabato 18 maggio 2024 presso il Comune di Bova, ci conduce tra le crepe di un'identità rotta
di Vincenzo Reale
Quelli come me, quelli nati altrove, lontano, non sanno mai bene chi sono. Quelli come me sono figli di emigrati, di gente costretta a lasciare la propria terra in cerca di pace e di fortuna. Gente andata via, ma condannata a non trovare più un posto da chiamare casa.
Ricordo i preparativi per il lungo viaggio, l’estate, mia madre che imbustava i panini e mio padre che si metteva al volante nel cuore della notte per evitare il traffico del raccordo anulare. Dieci, undici, dodici ore in auto per rivedere la Calabria. Ce ne andiamo o stiamo tornando?, mi chiedevo bambino. Di dove siamo noi? Di dove sono io? Io, che non parlavo calabrese a scuola o con gli amici ma lo sapevo parlare, lo conoscevo; io, che quando la nuova maestra mi chiedeva di dove fossi, rispondevo:
«Sono nato qui, ma sono calabrese» o «Sono calabrese, ma sono nato qui».
Quel ma era una spaccatura, una crepa nella mia identità che non potevo aggiustare, non potevo stuccare come facevano mio padre e mio nonno. Ero condannato anch’io: ogni volta che mi avessero chiesto di dove fossi, nella mia risposta ci sarebbe sempre stato un ma.
Ricordo quei viaggi, ricordo la trasformazione estetica dell’Italia oltre il finestrino. Capivo di essere entrato in Calabria quando fuori vedevo il mare e i mattoni, il cemento, le case non finite. Quel non finito era la mia destinazione, ero io, era la mia identità confusa, sconclusionata, imperfetta. Ma sì, ero io.
Tra un viaggio e l’altro potevano passare dei mesi, ma ogni volta ricordavo le strade, gli incroci, i palazzi. E quando finalmente l’auto entrava in paese e si fermava davanti alla casa dei nonni, ricordo mio padre spegnere il motore e dire: «Eccoci a casa». Questa è casa mia?, pensavo. Casa mia non è a mille chilometri da qui? Qual è la mia vera casa?
Oggi quel grande ma rimane, e a volte devo sfoderarlo per spiegare il mio accento a chi sta a Sud, per legittimare il mio nome con chi sta altrove. A me stesso, quando penso a quel ma, dico di essere figlio di gente che ha lottato, che ha costruito un futuro, che ha sperato. Dico questo: di avere la fortuna di raccontarlo, e che raccontarlo è ciò che di più giusto posso fare per capire chi sono, come un po’ di stucco su una vecchia crepa.
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