Calabritudine: quel senso di noi lontani da casa
Non c'è un solo calabrese partito che non si sente rotto. Ostaggi di un vorrei, ma non posso, di una coincidenza ferroviaria cui è annodata la valigia di cartone, apprendiamola nostra identità nel coltivare memoria e radici.
di Giuseppe Aloe
Più si è lontani più le cose mancano. Le cose della tua vita. Di quella vera però. Eppure è quasi naturale per noi calabresi spostarci, andare via, fare il nostro valigino e sparire all’orizzonte. Ma è proprio in questo orizzonte sconfinato delle grandi città (dove s’impara a vivere secondo un modo che non ci appartiene) che finalmente iniziamo a capire cosa significa essere nato in un posto. In quel posto.
Per tutta la mia vita non ho fatto altro che muovermi nelle stanze della mia vita da giovane a Cosenza. Nel rimbombo del dialetto, di quelle tradizione che ora vanno scomparendo, attraversando strade minuscole che non arrivano a niente. Vivendo spesso in una specie di deserto di noia, che invece si diventava nuova creatività, un nuovo gioco, pensieri mai pensati prima che da allora in poi non ci hanno mai abbandonato.
Non è facile capire tutto questo. Ma in quell’apprendimento spontaneo che è fatto di panorami, di pomeriggi al sole, di chiacchiere con gli amici, di sigarette rubate ai genitori, di nuove parole che sfrecciavano nelle nostre bocche, di questa aria che incombe come un elefante sulla testa, c’è il cardine della nostra esistenza. .
Tutto questo io chiamo identità. Ed è la mia. E non può essere quella di nessun altro, perché è un’identità che ha a che fare con me e con i luoghi che lentamente sono diventati parte di me. Come se fossero pensieri, mani che si alzano, parole, dette e ascoltate. Un piombo che ogni volta che te ne stai distratto a guardare i palazzi ti tira giù, ti riporta in quella piazza con la fontana. Come se fosse una parte di te: un legamento, un’articolazione, la forma del naso. Qualcosa, insomma, che non può che essere te.
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