Eppure io continuo a ritornare

Andare e tornare da Caccuri a Como riapre ogni volta la ferita di un'appartenenza vissuta tra abbandono e scoperta di un altro mondo. Alle nuove generazioni dico: un paese ci vuole e i legami di sangue, il loro richiamo, sono necessari. Sentirsi svincolati da questo sangue li impoverisce, toglie loro un mondo che non troveranno da nessuna parte.


Di Olimpio Talarico



Oggi si celebra un luogo, si celebra il destino di chi in questo luogo ha ben piantate le proprie radici e al quale è legato da un filo necessario, vitale ma a volte anche doloroso.

C'è una frase di Cesare Pavese che molti di voi conoscono e che voglio utilizzare per sottolineare l'importanza che ha per ognuno di noi il luogo dell'anima, qualunque destino ci abbia riservato la vita e qualunque sia stata la strada sulla quale ci siamo incamminati. "Un paese ci vuole, non fosse altro per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti."

Nei giorni agostani Caccuri diventa il luogo del ritorno. C'è chi arriva da ogni parte d'Italia o, come i miei amici, dall'Inghilterra o da San Francisco, ma c'è per fortuna chi ancora apre le braccia per accogliere i fratelli che quel filo di cui parlavo prima lo hanno solamente allungato.

Restare a Caccuri e partire da Caccuri sono i due campi magnetici all'interno dei quali una comunità continua a vivere, a resistere, a fare a cazzotti con l'abbandono, lo spopolamento. Restare e partire sono insieme due atti inevitabili, ma atti di amore per un luogo da ossequiare, da tramandare, ma soprattutto da rigenerare. Perché amare un paese non significa abitarlo, viverlo passivamente, ma prendersene cura e soprattutto ricostruirlo, dandogli ulteriore forza per sopravvivere.

Quando avevo 18 anni con i miei amici feci un viaggio a Como, dove allora, ma anche ora, vive una numerosa colonia di caccuresi. Nei loro occhi e soprattutto nei loro gesti affettuosi riuscii a leggere la malinconia per la terra abbandonata ma pure la gioia e l'attesa di ritornare per la festa di san Rocco. Ricordo perfettamente la loro contentezza, ma soprattutto l'avidità nel volersi riappropriare di un luogo, amato ma abbandonato. Dopo 40 anni questo rito si ripete ancora oggi, ma con modalità e intensità diverse. Molti di loro arrivano ormai a Caccuri per pochi giorni, poi vanno in vacanza in altri posti.




La mia invece è forse l'ultima generazione tormentata dalla questione dell'appartenenza, dei legami indissolubili. Una generazione, la mia, strattonata da una parte da questo forte bisogno di identità, di far parte di un popolo, non esagero se dico di un gruppo etnico. Dall'altra sballottata dalla modernità che inesorabilmente, e soprattutto senza farcene accorgere, sta demolendo i valori della nostra identità.

Pur vivendo a Bergamo da ormai 30 anni, continuo ogni giorno a chiedermi insistentemente che fine farà Caccuri, chi è ancora la sua gente, quale sarà il suo futuro.

E per quanto la mia natura mi porti a recepire tutto quello che il mondo mi propone, senza tralasciare nulla di quello che i tempi nuovi mi offrono, il mio punto di riferimento resta sempre Caccuri: gli spazi neri delle assenze, quelli bianchi dei vivi, le braccia calde degli amici, il ricordo degli amici che mi hanno lasciato, lo sguardo pieno di paura e la faccia faticosa di mio padre mitigata dalla gioia di ritrovarci. C'è da dire però che tutto questo non mi esalta, non mi rende felice, anzi mi affanna.

C'è una cosa particolare a cui pensavo in questi giorni. Non c'è stato un agosto, una festa di San Rocco che io abbia trascorso da un'altra parte. Mai. Pur riconoscendo però che la parte viva e moderna di me è altrove, oltre Caccuri in una dimensione che inesorabilmente procede, va avanti lungo un percorso ininterrotto e progressivo.

Eppure la mia vita non è soltanto questo procedere in avanti, c'è in me dell'altro. E parlo di una parte oscura della mia anima ancora trattenuta in una dimensione arazionale, ancestrale, antica che ha a che fare con la nascita, con l'oscurità dei rapporti di sangue, con i morti. In un movimento che smette di essere appunto progressivo e diventa circolare e che ritorna sempre al punto di partenza.




E allora mi chiedo cosa è la nostra vita? E' questa linea retta che inesorabilmente va avanti o l'attaccamento morboso al mistero delle nostre appartenenze più antiche? Di cosa noi abbiamo bisogno? E vi prego di pensarci attentamente perché proprio in questa continua e a volte impercettibile instabilità sta la nostra attuale condizione: le nostre incertezze, le indecisioni, il dolore dell' incompletezza.

Guardate, la mia è forse l'ultima generazione costretta a vivere con l'ossessione del tradimento, dell'impotenza. Del senso di colpa dell'abbandono, del dubbio del restare. Partire e restare sono i due poli dell'umanità, dice il mio maestro e amico Vito Teti.

Per fortuna o sfortuna, non lo so, i giovani hanno strappato questo cordone ombelicale, vivono i luoghi con minore ossessione. Tornano a Caccuri, per pochi giorni, poi ripartono per appropriarsi del mondo. Nuovi mari, diversi spazi. E io mi ritrovo invece nello stesso posto ad agosto ad assaporare la fratellanza degli amici, a ricordare la mia storia, ad avvertire il sangue di un borgo. E mentre sento che il mio sguardo faticoso è uguale a quello di mio padre, mi chiedo qual è il senso del mio partire, del mio andare in un tempo progressivo se poi in fondo riesco a scrivere solo di queste vinelle, del ritorno delle ciavule, della protezione del castello, degli uomini e delle donne che qui gioiscono e patiscono?

Lo riconosco, la mia fuga da Caccuri ha a che fare con le catene, con le oppressioni dei luoghi, degli affetti a volte soffocanti, con i litigi e le riappacificazioni inevitabili a queste latitudini. Il paese non è un luogo facile sei sempre a stretto contatto con i tuoi demoni. "Qui conosco le tombe di ogni insetto" scrive Franco Arminio.

Per le strade di Caccuri c'è sempre un rumore da evitare, un profumo da annusare, voci da rincorrere. Un alternarsi sanguinoso di assenze e apparenze, una tavola imbandita di capolavori e offese.




Eppure io continuo a tornare. Puntualmente.

Avverto il bisogno fisico di tornare in un mio perimetro, in un luogo dove ogni pietra, ogni filo d'erba contiene una distratta divinità. Avverto il bisogno di tornare in questo sputo di case e di barcamenarsi in questo intricato incrocio di stradine che è morbido come un abbraccio, anche se rischia anche di farti perdere il senso della misura. Perché non c'è posto di Caccuri che per me non diventi faticoso, in cui mi senta forte, anzi le forze il più delle volte le vedo venire meno.

A Caccuri si fa fatica in tutto: l'abbandono, i morti e le loro assenze rumorose, il volto invecchiato di mio padre e dei suoi amici che per me hanno rappresentato sempre, sin da quando ero piccolo, la continuità dell'esistenza. Si fa fatica nei luoghi dove miei amici mi hanno reso felice e ricco e capire che quell'età è stata scannata dallo scorrere inesorabile del tempo.

E allora ai giovani io davvero non so cosa consigliare, se lasciarsi ancora commuovere ma anche ossessionare dal ritorno e da un paese, e quindi farsi tormentare dal ricordo, dai sensi di colpa, dal tradimento. Lasciarsi commuovere dalla voglia di vedere passeggiare san Rocco per le vinelle di Caccuri, dalla lotta per non dimenticare una sola parola del nostro dialetto, dall'aggrapparsi alle nostre tradizioni che portiamo in ogni parte del mondo. Oppure se suggerire a loro di andare oltre, perché staccarsi da questo legame ancestrale significa soffrire di meno, lasciarsi alle spalle le ossessioni della terra.

Ma mi conoscete e allora voglio sbilanciarmi, non mi piace essere indeciso. Così che alle nuove generazioni dico davvero, ritornando a Pavese, che un paese ci vuole e che i legami di sangue, il loro richiamo, sono necessari e che sentirsi svincolati da questo sangue li impoverisce, toglie loro un mondo che non troveranno da nessuna parte.

Non essere abbracciati e posseduti da un luogo significa negare all'anima la più misteriosa esperienza della vita. Portare nel cuore, nello stomaco, un luogo riconcilia con la propria storia, ha a che fare con la fedeltà e il tradimento, riunisce destini, facce e storie che altrimenti vagherebbero per sempre senza una meta e senza trovare una piazza nella quale ricongiungersi e dare un senso a tutto.




Se guardo l'anima abbandonata di Caccuri mi accorgo di condividere con lei lo stesso destino. E' un paese dall'anima ferita a tratti infelice e io non ho fatto altro che scappare da questa infelicità. Ecco perché nonostante la necessità irrinunciabile di collegarmi con il mondo, non riesco a staccare mai la spina con tutto quello che Caccuri mi ha lasciato dentro. lo non sarei io senza Caccuri. Non saprei raccontare storie senza Caccuri. E le storie non si possono raccontare se non si è bravi a scovare le fatiche della vita dietro la serenità apparente.

Gli scienziati dicono che il picco di visibilità delle stelle cadenti si è spostato di due giorni rispetto al 12 agosto. E allora in questa notte di struggenti desideri sarebbe bello se anche tutti noi potessimo planare su Caccuri come stelle cadenti e sorvolare con delicatezza e trovare quello che ci ha costruito e che ci aspetta sempre per accarezzarci la vita.

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